Moria, la collina degli afghani

di Caterina Amicucci (anche su comune-info)

Sono passate più di due settimane da quando sono tornata da Lesbo (leggi anche Tornare a Lesbo per fermare la strage). I primi giorni li ho trascorsi a letto con febbre, tosse e stanchezza. Poi il fisico è guarito e le sensazioni hanno cominciato a sedimentarsi. Lentamente, tra le tante cose vissute, sono iniziate ad emergere quelle dai contorni più definiti.

Come tutti, ho passato notti e mattinate in spiaggia con altri volontari ad aspettare le barche cariche di rifugiati. Non c’è dubbio che sono stati momenti estremamente emozionanti. C’eravamo solo noi e loro. Non un poliziotto, un’ambulanza o altra traccia delle istituzioni. Sul “purtroppo” o “per fortuna” si è dibattutto e continueremo a dibattatere. Ma quel che certo è l’unicità di quella situazione, del condividere il primo passo in Europa di gente in fuga dalla guerra e in cui si mescolano pianti, abbracci, paura, sorrisi, urla, speranza, sigarette, foto, selfie, coperte di emergenza, bottiglie d’acqua, e mille altre cose. Un’esperienza umana fortissima.

DSC_0065

Nonostante questo il mio cuore è rimasto lontano dal mare, a Moria, sulla collina degli afghani.

A Moria c’è una base militare dove tutti i rifugiati, normalmente bagnati dalla vita in giù, vengono portati per la registrazione. L’attesa può durare da qualche ora a diversi giorni.

Si tratta dell’Hot Spot di Lesbo anche se, nonostante il filo spinato, resta un luogo sostanzialmente aperto. All’interno del compuond di Moria sono installate tutte le grandi Organizzazioni non governative ed è possibile ospitare qualche centinaio di persone, normalmente le famiglie con molti bambini.

L’Acnur non ha nessun mandato sul campo di Moria e le Ong presenti all’interno non hanno dato, fin qui, prova di grandi capacità organizzative, non riuscendo di fatto a creare un meccanismo efficace di risposta alle esigenze di base.

Per questo negli ultimi mesi sulla collina adiacente alla base militare è nato un campo di transito interamente autogestito da volontari internazionali. Qualcuno lo chiama Afghan hill qualcun’altro Olive groove. Sotto il nome di “Better days for Moria” (Giorno migliori per Moria) si è formato un collettivo internazionale i cui componenti cambiano in continuazione, che dopo aver affittato un uliveto ha iniziato, lo scorso ottobre, a provvedere ventiquattro ore al giorno alle esigenze di base dei rifugiati: distribuzione di cibo, bevande calde, vestiti asciutti, attività per bambini, tende, coperte, ambulatorio, informazioni, ecc.

DSC_0097

Ognuno può partecipare, basta recarsi alle 14 all’incontro di orientamento dei volontari e dare la propria disponibilità. Nell’info point c’è un grande tabellone dove ci si iscrive per il turno prescelto. Otto ore di lavoro: dalle 8-16, 16-24 e 24-8.

Non esistono veri e propri coordinatori, ci sono alcuni volontari che sono lì da più tempo ed hanno partecipato alla fondazione del campo che hanno una visione d’insieme più precisa. Di fatto però c’è uno scambio continuo di esercizio della leadership e di responsabilità.

La maggior parte sono volontari indipendenti che si fermano pochi giorni e poi ci sono piccolissime associazioni e collettivi, alcune nate in maniera specifica e dotate di grande flessibilità.

È una babele di persone di paesi diversi che possono incontrarsi e lavorare insieme anche solo per una notte e che, in un caos organizzato, riescono ad essere incredibilmente efficienti.

DSC_0067

Si distribuiscono centinaia di pasti, tè, calzini, scarpe, vestiti, coperte ed ogni giorno si lavora per rendere la permanenza dei rifugiati sull’isola meno miserabile lottando contro mille avversità, fra le quali la più insidiosa è la pioggia, che quando cade, trasforma la collina in una colata di fango.

Ma il giorno dopo ci si infila un paio di stivali, ci si rimbocca le maniche e si ricomincia.
Moria è una testimonianza viva di quello che la solidarietà senza confini può costruire ed e la prova dell’esistenza di alternative concrete alle barbarie quotidiane alle quali passivamente assistiamo. È un modello di accoglienza autogestita ed umana. Arrivederci Lesbo!

Lascia un Commento